martedì 5 agosto 2008

La squadretta non aveva alternative

Mattia Feltri per “La Stampa”

"Per cento giorni, per cento anni, non finirò di amarti mai», cantava Caterina Caselli, e Silvio Berlusconi l’accompagnerebbe volentieri. Dipendesse da lui, per i cento giorni trascorsi e i cento anni a venire non farebbe che presiedere il governo, da quanto ama presiederlo e da quanto lo stima: «Merita da otto in su», ha detto venerdì a Napoli. Anche dieci, dunque, e probabilmente dipende da una variabile: se il suo voto faccia media oppure no.
Che sia orgoglioso della squadretta (diminutivo rigoroso: quella di Prodi andava oltre il centinaio di componenti, questa si ferma alla sessantina) lo dimostra il fatto che in conferenza stampa, con alle spalle la Verità del Tiepolo rivestita, stringe da nonno buono il polso del ministro cui sta per cedere la parola.
I primi cento giorni scadono dopodomani, e il fato bizzarro ha previsto che il centesimo fosse il primo delle vacanze estive. I restanti novantanove sono stati frenetici, al punto che le dodici leggi approvate nascono tutte per iniziativa dell’esecutivo, col Parlamento nel perfetto trend notarile degli ultimi anni: raccatta e mette il bollo.
Col vantaggio accumulato alle elezioni, la squadretta non aveva alternative: fare il più possibile senza scocciature dai signori del legislativo che, con le liste bloccate, sono sullo scranno (tendenzialmente) per gentile concessione. Dunque zitti e vidimare. Non è il solo vantaggio di cui la squadretta abbia goduto.
Secondo vantaggio: la squadretta è tale e comanda il premier, i caporioni sono effettivamente pochi: Giulio Tremonti e Gianni Letta, innanzitutto, e poi Umberto Bossi e Roberto Maroni; qualche peso si attribuisce a Renato Brunetta, Maurizio Sacconi, Ignazio La Russa e forse Roberto Calderoli. In posti chiave come gli Esteri (Franco Frattini) e la Giustizia (Angelino Alfano), Berlusconi ha messo uomini di provata, diciamo così, sintonia. Terzo vantaggio: l’opposizione non si oppone, se non con un routinario Walter Veltroni e un accanito Pierluigi Bersani; il resto è nelle mani di Antonio Di Pietro e di qualche sparuto girotondista. I sindacati, per la prima volta nei quattordici anni in cui hanno avuto a che fare con Berlusconi, pensano a portare a casa qualcosa e, soprattutto nella Cgil, hanno accantonato la strategia del contrasto senza se e senza ma. L’Udc, più brava a fare la quinta colonna, è rimasta fuori dalla coalizione. Sinistra e destra estreme, dal Parlamento.
Il governo ha rimediato qualche noia dall’Europa, specialmente sulle questioni della sicurezza, e adesso si adegua. Maroni spedisce i suoi decreti a Bruxelles, e proprio a quei burocrati che il partito padano non tollera. Il pacchetto anticriminali e antimmigrati è comunque pronto. Siccome era imperativo categorico impiantarlo subito - con la campagna elettoriale che ci si era montata sopra - e siccome è meno duro del previsto, è stato necessario caricarlo di aggettivi e di intenzioni minacciose (il caso delle impronte digitali è lì da vedere) che hanno offerto il destro ai guardiani europei alla Martin Schulz.
La politica dell’annuncio è del resto lo spadone dell’esecutivo.
L’altra volta (2001-2006) Berlusconi sostenne di aver fatto molto e comunicato poco. Ora, di sicuro, comunica tantissimo, e ha i delegati. Il più efficace è Brunetta, nella sua guerra ai fannulloni e nella sua missione di trasparenza.
Stavolta, però, c’è anche qualcosa da vedere. La Napoli ripulita (sempre che duri) è uno spettacolo da offrire al mondo, e magari ai grandi del G8 il prossimo anno.
L’Ici e la detassazione degli straordinari sono cosa fatta. Le province, che dovevano essere cancellate, sono sempre lì dov’erano.
Il bonus bebé resta nelle intenzioni del premier quando incrocia le mammine per la strada.
Del resto la crisi economica è sfasciante e l’allegro ottimismo di altri tempi si è simpaticamente tramutato in allegro pessimismo. Il povero Tremonti - a parte qualche trovata come la Robin Hood Tax, meno generosa di quanto facesse intuire - sbatte al muro la testa per ficcare in quella dei colleghi che un altro ‘29 sta per arrivare; ma li convince a tagliare e, siccome teme le trappole degli spendaccioni, riesce nel prodigio di chiudere la finanziaria ad agosto, malgrado le forme (o i formalismi) lo obblighino a sigillarla in autunno.
Almeno nei modi, segue la strada del predecessore, Tommaso Padoa Schioppa, e dunque non vuole concertare: i conti sono questi, vanno fatti quadrare. Con la politica dell’annuncio, però, si corre il rischio della figuraccia.
E con Alitalia il rischio è forte. Il governo le ha restituito fiato con denaro pubblico, e la cordata nazionale non si vede, malgrado Berlusconi l’abbia annunciata una cinquantina di volte, le prime delle quali per ragioni di propaganda. Se finirà male, per il presidente del Consiglio saranno guai. Ma questo è un Berlusconi nuovo. Addio alle grandi opere, che necessitano di tempi lunghi e rendono poco in consenso. Il Ponte di Messina è un disegno sullo Stretto. L’Alta velocità arriverà da sé. Le autostrade tracciate a venti corsie sulle lavagne di Bruno Vespa giacciono nella cantina di Palazzo Chigi.
Le emergenze sono altre, comprese quelle mai messe nero su bianco. Infatti - accantonato per sfinimento dalla politica planetaria il conflitto di interessi - il premier qualche cosuccia personale l’ha aggiustata o sta per farlo, come nel caso delle intercettazioni telefoniche. Poi la blocca processi. Soprattutto il lodo Alfano, che mette nell’angolo il Mefisto dei suoi nemici, la magistratura, incassata con sorprendente facilità e con l’attonita inerzia del Partito democratico. Ora, con il lodo e la certezza di stare alla larga dei tribunali per cinque anni meno cento giorni, Berlusconi non ha più alibi. In autunno arrivano le grandi riforme, della giustizia e del federalismo fiscale. Con o senza dialogo, si vedrà. E si vedrà se gli elettori non finiranno di amarlo mai, per cento giorni o cento anni.

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