Orazio Carabini per "Il Sole 24 ore"
Il ministero dell'Economia (Mef) nei suoi documenti ufficiali dice di ricorrere ai derivati non per speculare ma per proteggersi contro il rischio di variazioni dei tassi d'interesse e dei tassi di cambio.
Con gli swap, in particolare, scambia con una controparte, generalmente una banca, due flussi di cassa. Trasformando, di fatto, un'emissione a tasso variabile in una a tasso fisso. Oppure un'emissione in dollari o yen in un'altra in euro. Ed evitando così pericolosi "avvitamenti" innescati da inattesi rialzi dei tassi d'interesse o da impreviste crisi valutarie.
Tutto ciò ha un costo perché le controparti pretendono una commissione. Ma questo costo è noto e prevedibile. Meno prevedibile è il "saldo" finale delle operazioni che, se vanno per il verso giusto, producono benefici per le casse dello Stato, altrimenti aumentano il già gravoso onere del servizio del debito.
E i derivati? Hanno fatto il loro dovere di "ammortizzatori del rischio"? O hanno amplificato le tendenze di mercato? Purtroppo non sono disponibili dati per rispondere a queste domande: il Tesoro infatti non diffonde informazioni sul numero, le dimensioni e la tipologia dei contratti di swap firmati con le banche.
Negli anni recenti gli effetti delle operazioni di swap sono stati "prociclici". Nel senso che quando la spesa per interessi diminuiva, grazie a un trend di tassi di mercato calanti, i derivati facevano risparmiare ulteriormente il Tesoro. Al contrario, quando la spesa aumentava, anche l'effetto swap positivo si riduceva. Fino a trasformarsi in un "costo" nel 2007. Al punto che diventa lecito chiedersi: ma allora perché si fanno i derivati se non riescono ad attutire le variazioni dei tassi?
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