sabato 10 maggio 2008

Stefano Folli per il Sole 24 ore

La guerra civile in Libano ci ricorda che i primi cento giorni del governo Berlusconi non sono fatti solo di Alitalia, spazzatura a Napoli, Ici da abolire e straordinari da detassare. C'è dell'altro e di peggio.

In Medio Oriente è in atto una grave crisi, dai risvolti imprevedibili; una crisi in cui come italiani siamo molto coinvolti perché la spedizione nel Paese dei Cedri era il fiore all'occhiello della politica estera prodiana e dalemiana.

Una spedizione che fin dall'inizio (settembre 2006) fu presentata come virtuosa, contrapposta alla «negativa» presenza italiana nell'Iraq invaso da Bush e Blair.
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Purtroppo fu chiaro da subito che le premesse dell'operazione erano ambigue e in sostanza, non si è mai capito bene quale fosse la missione dei nostri militari.
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L'ambiguità è cresciuta nel tempo, di pari passo con l'inasprirsi della tensione. Finché Hezbollah ha scatenato la sua offensiva. Il che fa temere, non solo a Israele ma all'Egitto di Mubarak, che l'Iran abbia deciso di assumere il controllo diretto del Libano. Sullo sfondo ci sono altri fattori. Come la concreta possibilità che Israele sia alla vigilia di una crisi di governo, con l'uscita di scena di Olmert ferito da un'inchiesta giudiziaria. E ancora: la questione del riarmo nucleare di Teheran, un tema irrisolto e cruciale su cui l'America di Bush non transige. Ma l'Iran sta anche accentuando la sua violenta propaganda contro Israele, in parallelo con gli attacchi dei miliziani intorno a Beirut.
Si capisce allora che Berlusconi e il suo ministro degli Esteri Frattini, appena entrati nei loro uffici, si trovano proiettati dentro un grosso problema che costituisce un'eredità del governo Prodi. In realtà le questioni sono due, fra loro strettamente intrecciate.

La prima riguarda il "che fare" in Libano. È evidente che è sempre più inutile restare su quella terra mantenendo le ambiguità originarie del corpo di spedizione. Inutile e pericoloso. In prospettiva, l'alternativa al ritiro è la modifica delle «regole d'ingaggio».

Di sicuro sarà necessario uno stretto coordinamento tra la Farnesina e le due capitali da cui dipendono le prossime mosse: Washington e Parigi. È il battesimo della politica estera del nuovo governo.

La seconda questione riguarda proprio il modo di stare dell'Italia sulla scena del Medio Oriente. Non c'è dubbio che il ritorno di Berlusconi è destinato ad annullare o correggere certi indirizzi della politica di D'Alema. È facile prevedere un rapido rafforzamento dei vincoli di amicizia con Israele. Resta da capire come influirà su questa svolta la gestione della crisi in Libano.

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